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La storia che forse nessuno avrebbe dovuto o voluto raccontarvi (per lo meno per una sorta di rispetto verso i lettori).

Dai, è un modo come un altro per riderci sopra e scherzare sulle vicende della vita senza, per forza, prendersi troppo sul serio.
Eccomi

 


La storia di un RIDER

 che amava RIDERE 

(la sua tragicomica vita)




CAPITOLO 1: L'INIZIO

 

 

Correva l’anno 1983, non ancora quattordicenne (e sapete bene per chi ha vissuto gli anni 70/80 quanto ciò fosse importante per un “maschio”), mi avvicinai per la prima volta a quella che sarebbe stata la mia prima cavalcatura meccanica motorizzata.

Già nell’aria, come i profumi di primavera, si cominciava ad assaporare l’odore pungente della mitica “miscela al 2”, termine molto poco tecnico ma indispensabile presentandosi di fronte ad un nerboruto benzinaio.

Eh si, perché stava finendo il periodo della “Graziella” verniciata in rosa e riempita di quei fastidiosi piccoli adesivi (nelle versioni giallo o verde) che le guardie notturne appiccicavano, tra l’altro senza un minimo di senso estetico, di senso delle distanze e parallelismo (forse proprio senza senso) su cancelli o cassette per le lettere.

Dava quasi l’impressione che di notte fosse tutto un viavai di agenti che, scrupolosamente, dopo aver controllato casa per casa, apponessero il loro sacro sigillo quale prova inconfutabile del loro passaggio.

La verità?

Mai visto uno di questi figuri.

Però dai, di fatto, ti sentivi protetto anche se i famosi adesivi comparivano nottetempo quasi fossero i regali sotto l’albero la notte di Natale piuttosto che i dolciumi nella calza della befana.

Per non farla troppo lunga, dicevo, il tempo della Graziella rosa cesellata di quella miriade di pezzettini di carta colorata stava terminando.

Non ci sarebbero più state cadute causate dal cedimento di schianto dello snodo centrale dell’amato biciclo. Mai più quindi facciate sull’asfalto.

Non ci sarebbero state più le sudate in salita (da tenere presente che dove vivo io, l’unica salita devi proprio andare a cercartela ed è uno dei ponti che passano sopra al canale) nonché i rischi di incidente mortale in discesa per mancato funzionamento dell’avanzatissimo impianto frenante.

Basta, mai più dolore alle gambe (per la cronaca esiste una formula matematica studiata appositamente da esimi scienziati della comunità internazionale dimostrante in maniera inconfutabile che, dato il diametro esterno delle ruote di una Graziella, se la si vuole spingere alla velocità convenzionale di 10 Km/h, considerando il peso proprio del mezzo che, essendo in ghisa a grafite sferoidale risulta simile ad un trattore, sommato il peso del guidatore, aggiunto il peso del passeggero normalmente posizionato in piedi dietro la sella occorre sprigionare una potenza di circa 4000 N/mm2 con un regime di rotazione dei pedali pari a 1961 giri/minuto che corrispondono, occhio e croce, a 33 PEDALATE AL SECONDO).

Comunque, la strada verso la meccanizzazione sarebbe stata ancora lunga nonostante mancassero pochi mesi al fatidico giorno ZERO, il compleanno.

Nel frattempo, evidentemente, lo spirito Custom già aleggiava nell’aere, ci si dilettava con le più svariate trasformazioni delle biciclette ed io, chiaramente, non mi esimevo dall’essere partecipe di questo autolesionistico gioco.

Nonostante la seconda più grande invenzione dell’uomo, immediatamente a seguire quella della ruota, sia stata “la ruota libera”, noi ci si andava a complicare la vita in controtendenza al processo evolutivo.

Procedendo una cosa alla volta vi spiego di cosa sto parlando.

Senza entrare in tecnicismi che nemmeno io saprei spiegarvi (o capire) se non copiando qualche cosa dall’enciclopedia dei 15, il concetto della ruota libera si esprime nella pratica con quel perno che fa si che pedali e ruota posteriore, seppur uniti dalla catena che trasporta la forza motrice alla ruota stessa possano essere appunto “liberi”. Per farla semplice: se pedalo vado avanti, se non pedalo e sono in velocità la bici prosegue e se sono in discesa procedo comunque senza dover agire sui pedali. Ragazzi, più facile di così non posso mettervela.

Ci siamo fino a qui? Bene.

La benedetta, o maledetta che dir si voglia, Graziella di tale sistema era dotata e quindi? Perché non toglierlo? Perché non semplificare il sistema di trasmissione tornando alle origini dell’invenzione stessa del biciclo?

Detto fatto ed in un battibaleno il mitico meccanico Rino (che poi sarebbe divenuto il mio benzinaio di fiducia) aveva già sostituito il perno con quello che in gergo si chiamava “il fisso” (proprio con l’articolo, se non lo si antecedeva al nome la gente non capiva di cosa tu stessi parlando).

“Il fisso” permetteva alla Graziella di tornare agli arbori della storia:

A pedalata corrisponde avanzamento.

A discesa corrisponde che i pedali continuano a girare.

A discesa ripida o amico che ti “tira” in motorino corrisponde che ti spezzi entrambe le gambe nella vorticosa giostra della catenaria!

Una mente normale direbbe a questo punto: “ma chi ve lo faceva fare?”.

Se così avete pensato vuol dire che vi siete fermati alle sole apparenze; di fatto, tanti e gradevoli erano i vantaggi di cotale sistema motrice.

Solo per citarne alcuni:

Potevi pedalare utilizzando una sola gamba, di norma la destra, mentre la sinistra era appoggiata al telaio o, per i più arditi, direttamente sul manubrio.

Potevi effettuare la “pedalata in piedi mono-gamba”; variante di quanto sopra ma, non stando seduti, con il corpo che sale e scende tipo pistone o biella / manovella.

Da un punto di vista meramente sportivo era fuori di dubbio uno sforzo atavico per le gambe quindi, aveva anche il suo perché dal un punto di vista sanitario (non nel senso del bagno certo, di sicuro si che si faceva del moto).

Ultimo punto a favore di tale sistema, chiaramente, LA PATATA. Chi aveva il coraggio di montare “il fisso”, a prescindere da data, forma, colore, modello del mezzo cavalcato riceveva più punti in classifica dimostrando il suo abnorme sprezzo del pericolo e mascolinità.

Questo poi, con il passare dei mesi, ha cominciato a non bastare più. Va bene tutto ma su questa bici ancora qualche cosa si potrà ben fare! Cosa quindi?

In puro stile minimalista, forza di molti Customizer, l’eliminazione delle parti esteticamente negative (con totale noncuranza delle prestazioni) e delle parti considerate “evitabili” o inutili (diminuzione dei pesi e della complessità generale).

Nasce quindi la moda del “Torpedo” o, come direbbe chi ha studiato e ne sa più di me, del “mozzo freno contropedale”.

Il mozzo freno contropedale è un sistema di frenata posizionato all'interno del mozzo della ruota posteriore e viene azionato tramite i pedali. Se si interrompe la pedalata il sistema risulta assolutamente equivalente a quello della ruota libera che continua a girare mentre i pedali possono appunto rimanere fermi.

Se, diversamente, si pedala al contrario (cioè all’indietro) il mozzo posteriore si blocca. Calibrando la forza applicata alla contro-rotazione del pedale si ottiene un rallentamento oppure una sgommata da paura. Fortunatamente al tempo le gomme costavano poco perché come ben potete immaginare erano tutte “spianate” da sgommate esagerate compresi “deraponi” entrando in via o sulle (allor poche) rotonde.

Non parliamo del godimento massimo su bagnato o pavé. A parte l’aspetto ludico del dispositivo, lo stesso permetteva l’eliminazione delle leve, cavi e pinze freno (ovviamente agiva solo sulla ruota posteriore quindi eliminando entrambe le leve si otteneva un mezzo con LA META’ secca di forza frenante).

Anche qui a svantaggi corrispondevano però indiscutibili vantaggi:

Frenata possente sul posteriore con effetti artistici considerevoli.

Manubrio pulito.

Apprezzamento ulteriore da parte DELLA PATATA.

Il ragazzo con il “super mozzo” prendeva più punti dell’uomo con “il fisso” e chiaramente di più di quello “a ruota libera”.

Caro Rino, quanti mozzi, fissi, catene avrai cambiato / sostituito / aggiustato nella tua vita solo per un motivo, LA PATATA. E pensare che facevi il ciclista / meccanico / benzinaio e non l’ortolano.

Sta di fatto che, fisso che metti, torpedo che togli, la Graziella, come un cavallo malandato e vecchio deve essere soppressa. Oramai diventata antieconomica ogni forma di ricovero e cura; essendo ancora distante il giorno ZERO, si pensa quindi ad una sostituzione integrale. Chiedi una volta, chiedi, due, chiedi mille, arriva l’OK della Direzione Generale (che poi a quell’età sono i genitori): “Va bene” (cito testualmente) “andiamo all’IPER che ho visto che sono scontate le bici da uomo”.

Tra me e me faccio alcune considerazioni a bassa voce:

Mi rendo conto che fino a quel momento ho guidato una bici da donna;

Mi rendo conto che per comprare una bici all’IPER e non da un ciclista vuol dire che economicamente non siamo mica tanto messi bene;

Mi ricordo di dove si trova l’IPER;

Penso alle dimensioni della bicicletta da uomo (diversamente dalla Graziella non piegabile);

Penso alle dimensioni dell’auto di mio padre.

Alla fine, sempre tra me e me:

A parte la figura di aver guidato per anni una bicicletta da donna tra l’altro rosa, cavolo, vuoi mica vedere che mi tocca farmi pedalando la strada dall’IPER a casa?

La risposta non serve vero? Fatto.

Credo che fosse intorno a Giugno, nemmeno una nuvola in cielo, si diceva che una giornata così calda a Giugno non si registrasse da 72 anni ed i tecnici avevano appena verificato la temperatura dell’asfalto: 200°C all’ombra di un cipresso.

Peso di partenza dall’IPER: 50.6 Kg.

Peso di arrivo a casa: 12.7 Kg.

Ripreso dalla fatica e reintegrati liquidi/sali minerali volgo lo sguardo alla nuova cavalcatura (non che avessi avuto modo di scegliere prima, quella era stata proposta e quella andava presa).

Color amaranto metallizzato, interasse intorno ai 3 metri, cerchi da 50 pollici con 18176 raggi ciascuno, sellino modello “Bersagliera” in finta pelle marrone senza imbottitura (escoriazioni e ferite lacero-contuse a livello inguinale garantite dopo qualche centinaia di metri), manubrio cromato tipo “Longhorn” (lunghe corna in Italiano) di circa 1 metro e 70 cm di larghezza con impugnature (manopole) in plasticone nero (calli da minatore dopo il primo utilizzo). Comunque, come si dice in gergo, viaggiava “di bestia” e (fondamentale) aveva LA CANNA.

Ecco cosa in sostanza distingue la bicicletta da uomo rispetto alla bicicletta da donna, la presenza della canna. In un certo qual modo la cosa ha senso ed ha anche il suo perché. D’ora in avanti mai più mani sulle spalle durante il trasporto di ragazzine ma FINALMENTE visione frontale con tanto di chiappe adagiate (per l’appunto) sulla canna. Può sembrare una banalità ma la cosa era parecchio diversa.

Non che tale nuovo assetto avesse però solo dei lati positivi (assai positivi direi). Lo stesso, si portava al seguito anche lati decisamente negativi quali la postura da tenere con le gambe durante le pedalate in coppia.

E’ pacifico che se ti trovi un corpo di fronte, sulla canna, non puoi pedalare in maniera normale, rischi a colpi di ginocchiate di fratturare ossa o nebulizzare milze dei passeggeri.

Comunque gran bel periodo, quelli di età inferiore o quelli che per scelta erano rimasti “graziati” (nel senso della Graziella) non avevano scampo. Sui rettilinei non c’era storia, sul misto avevo qualche problema in più, loro erano indubbiamente più agili. Di nuovo la morfologia del territorio mi veniva in aiuto e quindi surclassavo di gran lunga il folto ammasso di sfidanti. Chiaro, se scendeva in pista uno armato di bici da corsa non v’era storia e si perdeva amaramente ma negli altri casi mi distinguevo abbastanza agevolmente.

La storia volle però che tal distacco dalla concorrenza poco durasse, infatti dopo una festa organizzata a casa mia (solite robe, ragazze conosciute in discoteca, casa libera, amici sfasati, qualche disco degli IRON e qualche birra di troppo) ci si ritrova a notte fonda con un problema.

Uno degli invitati deve tornare a casa, abitava lontano, possibilità di essere recuperato piuttosto che accompagnato pari a zero quindi l’idea geniale: “catta su la bici che poi in qualche modo la recuperiamo”.

Il risultato è fin troppo prevedibile, lui a casa è arrivato mentre io la mia bici da uomo non l’ho più vista.

Le leggende popolari sul tema si sprecano, solo alcuni esempi:

“Ho bucato, l’ho lasciata a lato della strada ed ho chiesto un passaggio ed il giorno dopo la bici non c’era più”.

“Sono arrivato a casa, ho parcheggiato la bici nel cortile del palazzo ed il giorno dopo non c’era più”.

“Blablabla e non c’era più”.

“Blablabla e non c’era più”.

Dai, taglio corto, la bici non c’era più e mai più sarebbe tornata.

Per fortuna, il tempo passava; passava con inutili ricerche del biciclo ma passava anche per me avvicinandomi sempre di più al fatidico giorno ZERO.

Mancava ancora qualche mese ma oramai eravamo lì e le aspettative aumentavano proporzionalmente con il passare dei giorni, per non dire delle ore.

Finalmente il gran balzo evolutivo, dal mezzo a trasmissione umana al MEZZO A MOTORE!

Ancora non avevo compiuto 14 anni ma mio padre mi concesso un anticipo di regalo.

Sembrava un sogno, IO, bambino fino a quel momento, comandante, primo ufficiale, pilota di un “coso” a motore.

Il “coso” sarebbe il famoso CINQUANTINO, tanto amato, tanto desiderato, tanto sognato, tanto sospirato.

Ovvio dai, non mi aspettavo un mezzo nuovo di pacca prima ancora del compleanno, non mi aspettavo un milione di lire investite per me in una special, non mi aspettavo un razzo o lo Space Shuttle.

Ma nemmeno mi aspettavo lo ZUM 3 (ecco perché “il coso”). Conoscete lo ZUM 3? Cosa? No? Tranquilli, è normale. Trattasi del motorino che mia madre usava per andare al lavoro negli anni settanta e che ancora sopravviveva. La descrizione dello stesso potrebbe farmi occupare per lo meno 10 pagine che, per rispetto, vi eviterei. Una cosa dico: CHE BRUTTO! Quasi avrei preferito tornare alla “Graziella”.

Dai, però, ripensandoci, non posso esimermi da qualche commento e qualche descrizione del “coso” quindi beccatevi quel che segue nel prossimo capitolo che, non a caso, è chiamato ZUM 3, IL COSO.

 

 

CAPITOLO 2 : ZUM 3, IL COSO

 

 

4 gradini in volgar cemento.

Larghezza 3.5 m.

No piastrelle, no colore.

Solo cemento, grigio, freddo.

In fondo un portone a due ante simmetriche di legno marcio chiuso da un lucchettone altrettanto marcio, ruggine.

Più che l’ingresso di una cantina sembrava quello di una sepolcro di famiglia in un vecchio cimitero di paese.

Il creativo progettista, nella sua schizofrenia artistica, aveva anche pensato di predisporre che tra penultimo gradino e volta vi fosse spazio appena sufficiente per l’accesso di un lillipuziano e, per completare l’opera, aveva istruito la società costruttrice della casa circa l’applicazione di quello che viene comunemente definito “strullato grossolano”.

Era assolutamente usuale scendendo le scale, in modo un tantino brillante, scuoiarsi il capo sul laterizio reso simil grattugia dai sassi annegati nel cemento, procurandosi ferite di indicibile profondità e lasciando brandelli di pelle e capelli appiccicati in ogni dove.

Macchie di sangue, tipo mattatoio, andavano poi a colorare l’allegro quadretto grigio donando un tocco di brio ai tristi gradini.

Ad ogni buon conto, superata quella che poteva sembrare una prova studiata da un geniale e perverso omicida seriale, con mio padre raggiungo l’antro funesto.

10 minuti di tentativi solamente per rimuovere il lucchetto (scanditi da rumore di ferraglia tipo castello Scozzese in presenza di nobile spettro), una spallata ed il portone si apre.

Non ci crederete, lo so bene, ma scricchiolava come era oramai normale dovesse fare in tal contesto. Mancava solamente un mostro-maggiordomo per completare il tutto.

Dentro, il buio.

Mio padre senza timore alcuno infila una mano all’interno e, procedendo a tastoni, trova l’interruttore della luce, evidentemente, chiaramente, per forza, fioca come un lumino di un camposanto.

Lo stesso (non il camposanto, mi riferisco a mio padre) perde poi un’altra decina di minuti per liberarsi da aracnidi di varia forma e colore nonché delle ragnatele che aveva raccolto durante la manovra di approccio verso l’interruttore.

L’effetto visivo era poi quello di un bastoncino (insomma, un tronchetto) di zucchero filato; peccato fosse un braccio e lo zucchero tele di ragno abitate!

Seconda prova superata.

Il genitore mi fa quindi passare davanti, oramai il portone era aperto, la luce c’era, i pericoli erano stati eliminati e rimaneva solo l’agognata sorpresa.

Sullo sfondo, sotto uno consunto strofinaccio a fiorellini (credo avanzo di lenzuolo) si nascondeva qualche cosa. Per dimensioni e forma intuita (vedevo le corna) in tutta onestà pensavo fosse un caprone imbalsamato.

“Bello”, penso tra me e me, “se adesso scopro che è veramente un caprone imbalsamato che cavolo me ne faccio? Messe nere?”.

“Vabbè, poi decido”, mi dico, e procedo cautamente con la rimozione del telo.

“Porca di quella porca e ancora porca”;

“Non è un caprone, cervo, stambecco o altro animale cornificato (nel senso delle corna, cioè che ha le corna, dai quelle lì di corna, allora avete capito? Basta pensar male!)”;

“Papà”;

“è un”;

“un”;

“è”;

PAUSA RIFLESSIVA!

“Papà, cos’è che è?”

“Maddai”, risponde, “è il tuo motorino nuovo”.

Ora, si potrebbero aprire mille parentesi circa l’uso dei termini comunque, quel COSO, poco aveva di un motorino e sicuramente non era nuovo!

Poi, che un padre voglia indorare la pillola al figlio ci sta tutto, ma se posso dire la mia in tutta sincerità qui più che pillola si trattava di supposta ed hai voglia ad indorare una supposta, magari risulterà più invitante e saporita ma comunque non la devo mica inghiottire!

Mammamia se era brutto; che non me vogliano i progettisti, io lo giudico unicamente in base ai miei gusti. Bruttobruttobrutto.

Vediamo quindi di farvi capire di che cosa si trattava:

Ruote di larghezza e diametro praticamente equivalenti (delle sfere insomma), diciamo diametro 2 spanne, giusto per capirci.

Livrea bianco-gialla.

Doppia sella, una tipo Graziella (e l’incubo ritorna) e la seconda (non si sa bene per quale motivo) posizionata posteriormente, ovviamente, ma 20 cm più in basso!!!

Contando poi che come tutti i motorini di 50 cc risultava omologato per 1 persona a che diavolo serviva la seconda sella?

Per cambiare posizione durante le lunghe percorrenze assumendo un assetto più “Low Ride”?

Marmitta 1 in 1 (essendo evidentemente ad 1 cilindro) della stessa lunghezza del motorino che terminava con una specie di tromboncino tagliato a fetta di salame.

Chiaramente, come si usava all’epoca, 2 pedali che servivano per l’accensione e, nel caso di bisogno, per non rimanere a piedi ed andarsene allegramente a passeggio pedalando.

Cosa?

Pedalando?

Ma se non ho le ruote ma ho due sfere? Forse meglio pattinare!

Capisco solo adesso perché il CIAO si chiamava così, ti salutavano e passavano mentre tu, povero demente, cercavi di arrancare sull’asfalto con un pedalò!

Di fatto, superato l’imbarazzo iniziale, il mezzo non era poi così male.

Vero, posizione di guida assolutamente inusuale, estetica decisamente discutibile, cromatismo indecoroso ma, di fatto, quando l’accendevi era uno spettacolo.

Nonostante il “tutto”, senza metterci mano, senza regolazioni strane, senza modifiche risultava essere a discapito delle apparenze il cinquantino più veloce in circolazione (ovviamente paragonato ad altri motocicli non modificati).

Una delle cose più pregevoli stava nel fatto che avendo un assetto così inusuale e delle ruote così piccole fosse particolarmente avvezzo all’impennata.

Ricordo di una volta in cui con un caro amico motorizzato VIP 4 ci si divertiva a far imbizzarrire i Pony meccanici (perché chiamarli cavalli sarebbe un puro eufemismo).

Insomma dicevo, facciamo sta gara di impennata ed al secondo tentativo mi trovo con il motorino perfettamente verticale.

Il faro anteriore puntava il cielo come il BAT Segnale mentre il parafango in acciaio inossidabile posteriore cominciava a grattare sull’asfalto.

A parte le coreografiche scintille ed il poco gradevole rumore metallico, come risultato finale ho ottenuto quello che possiamo definire parafango a “grondaia”.

Praticamente ribattuto verso l’esterno come nemmeno un pratico ed esperto maniscalco avrebbe potuto fare.

Inutile dirvi che non è mai più ritornato alle sua forma originaria.

Abbiamo provato, io ed il mio povero padre, con pinza a pappagallo, martello e scalpello, morsa e cannello, ingiurie e bestemmie ma a nulla è servito il nostro sforzo.

Così si era trasformato e così aveva deciso di rimanere.

Superata questa fase, oramai il controllo del mezzo era quasi conquistato al 100%, a meno di alcuni aggiustaggi nello stile di guida che nel corso degli anni ho cercato di correggere.

Una tra tutte la capacità di affrontare una curva in velocità senza partire per la tangente.

La lezione l’ho imparata abbastanza presto. In un bel Sabato pomeriggio di sole mi ritrovo a percorrere una via del centro con curva a 100° sulla sinistra. Imposto a modo mio la curva e di gran carriera mi ci infilo accorgendomi in un batter d’occhio che mai sarei uscito incolume dall’azzardata manovra.

Giro, giro, giro, sterzo, sterzo, sterzo e dai, “ce la faccio”, mi dico, infatti passo a qualche millimetro dal muro della casa che raccorda la curva ma, pluviale maledetto, picchio con il pedale contro il tubo di scolo dell’acqua.

Rimango in piedi, forse per effetto della velocità e della fortuna ma, dopo il colpo, del pedale non ne rimane traccia e dallo specchietto lo vedo saltare come una rana pazza alle mie spalle.

Perno tranciato, pedale deformato e graffiato.

Padre giustamente imbizzarrito al mio rientro.

Tornato quindi mestamente a casa, ci mancava anche la sgridata e l’ordine imperativo di andare dal ferramenta a cercare una vite che andasse bene per riparare al danno.

Problema risolto abbastanza agevolmente.

Altra lezione imparata sul campo: l’uso dei freni.

Freno anteriore comandato dalla leva di sinistra, freno posteriore dalla leva di destra.

Oppure era il contrario.

Di fatto, a tutta mancina, mi lancio lungo una stradina sterrata, rilascio l’acceleratore e già immagino il risultato della mia acrobazia: una splendida sgommata con derapata verso sinistra, piede a terra, nuvola di polvere ed eccomi fermo e soddisfatto.

Come potrete ben presumere, visto che ve lo sto raccontano, qualche cosa non è andata esattamente come auspicato.

Leva a destra o leva a sinistra che fosse, data la legge del 50% di probabilità, mi trovo ad azionare quella che di botto mi blocca la ruota anteriore.

Immediatamente perdo il controllo del velocipede, il manubrio si gira sulla sinistra, il motorino si impunta ed io come l’idiota che sono cado sulla ghiaia facendomi quei 20 metri di scivolata.

Pantaloni, maglietta, pelle, tutto a brandelli.

Motorino impolverato ed evidentemente graffiato.

“Bravo” mi dico, fortunatamente era presente solo quel migliaio di persone!

Ergo per cui, sangue si o sangue no, si mette in atto la strategia della fuga con manubrio tutto storto che pareva il timone di una barchetta.

CAPITAN GIACOMO, ecco il nome che meritavo.

Anche questo accadimento, in ogni caso, è servito a temprare corpo e spirito nonché ad aggiungere conoscenze meccaniche ce poi si sarebbero rivelate utili in un secondo momento.

Un esempio fra tutti, a cosa servono le piastre anti-svirgolo sulle forcelle anteriori.

Prima o poi tornerò sull’argomento ma anticipo quanto successo dopo pochi giorni quale proprietario di una Harley Davidson.

Tornato alla concessionaria chiedo come mai il manubrio mi sembra non in asse con la ruota e da lì la risposta del capo meccanico: “è per caso la tua prima Harley?”.

“Si”, rispondo, “ah, ecco”, risponde lui.

Le Harley hanno questa particolarità.

In particolare se le muovi da fermo, il manubrio tende a disassarsi rispetto alla ruota e per sistemarlo basta un bel colpo secco dato al contrario.

Una volta che i due elementi tornano in linea, gioco fatto, problema risolto.

In breve la stessa identica soluzione adottata per sistemare lo ZUM a meno di una ghiera (tipo bicicletta) che andava svitata prima dell’operazione.

Recuperato il disastro, tanti sono stati i chilometri macinati in sella a quella strana macchina del tempo, vero precursore di tutti i mezzi di trasporto che poi mi hanno accompagnato nel corso della mia carriera motociclistica.

Il termine Carriera sarebbe anche in questo caso da virgolettare, ma credo di averne abusato in solo due capitoli, quindi evito.

Ed ora, senza indugio, facciamo un salto in avanti non prima di aver inserito un capitolo che poco centra con il percorso temporale della mia vita.

Diciamo uno spazio alla réclame, immaginate di star guardando un film che si interrompe per la pubblicità.

Non lo so, in tutta onestà sto cercando di raccontare la mia storia ma sempre più spesso mi trovo il freno a mano tirato.

Provo a ripartire ma la macchina stenta, sbuffa, borbotta, quasi non voglia che io esprima me stesso nella sua banalità, nella sua pochezza. 

Sono ben conscio di non digitare passi degni del Decamerone piuttosto che di altri testi considerai oramai sacri.

Sono consapevole di non avere le doti di uno scrittore con la S maiuscola (nemmeno di una minuscola).

Ragazzi, io ho frequentato il Bernocchi di Legnano, con tutti gli onori che tale Istituto merita, ed ho anche fatto discreta fatica ad uscirne in modo decoroso.

Forse la cosa è di poco conto per molti, anzi lo è sicuramente, io non vi sto parlando di Mafia, di famiglie disadattate, di guerre, vicende urbane incredibili o fatti di cronaca eclatanti, racconto una storia banale.

Io sono uno dei tanti senza nulla da raccontare e proprio per questo, probabilmente, ho deciso di farlo. Noi siamo i DI PIU’.

Quelli de niente, quelli del sempre tutto uguale.

Non ci sono gare nel deserto in questi scritti, non vi sono attraversate oceaniche, forse la cosa più interessante è che forse prima o poi questo delirio di parole avrà una fine.

 

 

CAPITOLO 3: RÉCLAME

 

 

Cosa vi aspettate a questo punto?

Guardate lo schermo, la carta stampata o qualsiasi altro supporto voi stiate utilizzando per leggere queste parole ed immaginate.

Immaginate la migliore pubblicità vi possa venire in mente, vera piuttosto che assolutamente inventata, purché vi strappi un sorriso o una lacrima.

Che vi faccia riflettere.

Che vi faccia assaporare il bello della vita.

Che vi faccia capire che ognuno di noi è unico nella sua identicità con quelli che ci circondano.

Pensate a quello che volete purché ne valga la pena.

Questo è il momento nel quale il libro lo scrivete voi.

Questo probabilmente è il capitolo più importante.

Guardate, guardatevi, sentite, sentitevi e respirate.

Se avete fatto tutte queste cose sappiate ed abbiatene coscienza che altri non lo possono fare.

Siete / siamo quindi fortunati?

CERTAMENTE ED INEQUIVOCABILMENTE SI.

Finisce così lo spazio pubblicitario.

Il momento di riflessione.

Avete pensato bene alle vostre cose, ora si ritorna a pensare alle mie e ce ne sarà per tutti i gusti.

Si rientra in sala, le luci si abbassano, si riapre il sipario e la macchina da presa ricomincia a trasmettere immagini del mio passato.  Spero abbiate preso bibita e noccioline perché la parte che segue sarà al quanto interessante.

Si parlerà di “CICLONI”.      

 



A presto per il CAPITOLO 4 : CICLONE 

PS: io non sto mettendo alcun diritto artistico o veto su queste pagine, mi aspetto, che per rispetto, mie rimangano e non vengano usate per fini diversi da quelli per le quali sono nate: RIDERE.

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